Caro Diario,
mi chiamo Guglielmo Rossi e sono un soldato di 22 anni.
Sento il bisogno di scrivere, di raccontare a qualcuno la mia storia perchè qui, nelle trincee, tutte le esperienze sono diverse, eppure troppo simili per essere interessanti.
Ascoltata una le hai ascoltate tutte, dicono.
La mia non è uguale alle altre e merita di essere ricordata. Quindi, adesso sono qui, con il braccio
fasciato per una ferita riportata ieri, con il sedere affondato nel fango della trincea ed il terrore che, più forte del freddo, ci opprime gli animi, a lasciare una testimonianza che spero rimanga di ciò che è stata la mia vita.
Sono nato nel 1895 da una famiglia borghese di Milano.
Quando avevo 3 anni ci siamo trasferiti a Parigi e come era bella la vita la!
Ricordo ancora i vestiti di mia madre, i suoi grandi cappelli con la retina che le nascondeva gli occhi e i fiocchi sulla gonna, i pizzi delicati che le adornavano il busto e, la leggerezza dei suoi passi quando vorticava tra le braccia di mio padre mentre si lasciavano andare alle note del valzer, tanto in voga a Vienna.
Proprio ad uno di quei balli conobbi la mia amata Roseline.
Ripenso spesso ai suoi occhi castani, alla sua pelle morbida e bianca, al profumo dei suoi capelli dorati.
Ripenso anche a mio padre, con lui andavamo a fare lunghe passeggiate sulla Senna, lui con il bastone e le scarpe lucide ed io che gli trotterellavo al fianco cercando di seguire i suoi intricati discorsi sulla politica. E furono proprio quei discorsi a spingermi verso i salotti quando, nel 1912, tornammo a Milano. Si discuteva dell'Italia, di quanto fosse arretrata, povera, stanca. Ma fu dopo l'attentato di Sarajevo, nel 1914, che le discussioni infuocarono ed io cominciai a pensare a quello che sarebbe successo.
Avevo indovinato ogni evento a partire dalla dichiarazione di guerra che l'Austria fece alla Serbia pochi mesi dopo l'omicidio. Dicevo che non aveva senso che l'Italia fosse alleata dell'Austria quando questa aveva ancora Trento e Trieste dentro i propri confini.
Abbracciai l'ideale interventista, ero abbonato al Popolo d'Italia e disprezzavo i Neutralisti perchè non ero cosciente di quanto l'Italia fosse impreparata ad affrontare una guerra. Non capivo perchè il governo aspettasse così tanto a scendere in campo e, quando ci fu la dichiarazione, corsi ad arruolarmi come volontario.
Finalmente potevo far valere i miei ideali! Non avevo il minimo pensiero su quanto poteva succedermi al fronte. Il mio reggimento intraprese diverse battaglie e subito non capivo perchè tutti fossero così amareggiati: andavano a morire per una buona causa! Quale buona causa?! Lo capii solo dopo; quando i miei compagni erano ormai stanchi di ripetermelo. Stavo guardando il mondo con gli occhi di un bambino! Perfino un cieco avrebbe capito che il nostro materiale bellico era scarso e il cibo era avariato, che stavamo combattendo una guerra non nostra. Cosa c'entravano i contadini, gli artigiani, gli allevatori con tutto questo? Loro faticavano a tirare avanti già prima del 1915, l'ultima cosa di cui avevano bisogno era una guerra e di sicuro non erano un granchè interessati a riavere Trento e Trieste. Lo vidi negli occhi di Alberto, un contadino veronese diventato mio amico, mentre si spegnevano dopo che il suo cuore aveva mangiato un proiettile nemico. Il suo ultimo sguardo fu per il cielo, quel cielo di cui parlava sempre per tirasi su il morale; di come era bello il tramonto nelle sue sfumature di rosso, all'alba quando l'accoglieva con un roseo orizzonte, e, di quanta felicità portava quando le nuvole promettevano pioggia durante un periodo particolarmente secco. Ma quel giorno il cielo era grigio e dall'azzurro dei suoi occhi scese una sola goccia di una pioggia salata destinata ad arrugginirgli per sempre la guancia. Il giorno dopo ci fu un ammutinamento, aderimmo tutti e nessuno parlò quando il generale Cadorna ci intimò di dirgli il nome dell'artefice. Se ne andarono in 8 per quella sparatoria a decima e io scampai per un pelo la fucilazione: il numero dieci era il ragazzo accanto a me.
Ora devo lasciarti: tra poco sarà buio ma, non ti saluto con un "arrivederci", userò un "addio" perchè sento nel cuore che domani ci sarà una battaglia alla quale non avrò la fortuna di sopravvivere.
Addio, Guglielmo
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